L’energia della fuga:atasha Ramsay-Levi abbandona le ragazze di Chloé su un’isola del Mediterraneo,

 

Natasha Ramsay-Levi abbandona le ragazze di Chloé su un’isola del Mediterraneo, anzi le porta a zonzo su più isole, e lascia che il sole stordente, la salsedine e lo spirito hippie facciano il resto. Le astrazioni e le durezze delle scorse stagioni – alquanto incongrue nello scenario sempre spensierato di Chloé – si liquefanno da ultimo in un vorticare di orli a pareo, zampe d’elefante, tapezzerie disassortite e corde che cingono la vita. Lo chic nomade non è certo una novità. Al contrario è un topos che ricorre con frequenza nell’immaginario modaiolo. Ramsay-Levy aggiunge poco alla conversazione, ma lo fa con una spontaneità ed energia che riportano Chloé sul binario, ricordando anche che il nuovo lusso è inclusivo.

Julien Dossena da Paco Rabanne affronta il tema del metissage panculturale con il piglio del vero autore, confermandosi uno dei pochi fuoriclasse nella nuova guardia dei giovani creatori. È il punto di vista – lucido e tagliente – a fare la differenza: Dossena non perde mai il controllo, anche quando impila, taglia, accosta, incolla e affianca brandelli e lacerti sottratti per ogni dove, dai bagliori metallici dei sari ai fiori stilizzati dei kimono, dalle lacche ai broccati.

La sua idea di viaggio è un fremere di superfici e di sovrapposizioni che si dipana dentro la cornice di un guardaroba dalle linee esatte, che mescola maschile e femminile, pensato non per una hippie nostalgica, ma per una donna di oggi, all’interno di una maison che ha il futuro nel dna. L’omaggio ad una collezione krishna-punk di Jean Paul Gaultier, datata 1994, è evidente, perchè identico è lo spirito sicretico che crea nuove specie d’abito partendo da elementi opposti. Il lavoro di Dossena, insomma, è una operazione di design, non di assemblaggio o styling, e per questo ha spessore e valore.

Anche Glenn Martens, il belga che ha trasformato Y Project in un fenomeno di nicchia dall’eco roboante, è un fuoriclasse. Le sue creazioni completamente sbalestrate, fatte di livelli che si moltiplicano, scosciature che si alzano infingarde, movimenti plastici che seducono, sono il frutto di una verve sperimentale che è in primo luogo padronanza assoluta della tecnica. Inventore indefesso, Martens propone abiti sfrontatamente femminili, il che è quasi un unicum nel panorama dell’avanguardia – sempre che la nozione sia ancora valida. A questo giro torna sui temi noti – trasparenze in décalage, drappeggi scultorei, moltiplicazioni di dettagli – accentuando le differenza alla ricerca del caos deliberato, confermando così il proprio status di autore.

Il viaggio mentale di Rick Owens, in fine, parte da una riflessione sulle brutture del presente allargata ad una più vasta considerazione dei cicli di evoluzione e involuzione che caratterizzano le civiltà attraverso i secoli. Una elucubrazione espansa e, come sempre per Owens, profondamente esistenziale, tradotta in abiti certamente non comuni, ma quasi primordiali nella schiettezza con cui si rivelano immediati nell’uso. Sotto l’avvolgersi dei volumi, lo stratificarsi dei ritagli del pizzo brutalista, il fluttuare di maniche che paiono bandiere lerce, Owens mantiene infatti un sano pragmatismo: fa vestiti, ecco tutto, e lo tiene sempre a mente.

La collezione si intitola Babele e sfila intorno a una torre-pira che a metà dello show prende fuoco: gesto creativo e insieme distruttivo, prometeico – alcune modelle reggono fiaccole come tedofori – e di certo liberatorio per chiunque abbia a noia quel che oggi non va. Gesto quasi di vendetta verso le piccolezze del contemporaneo. Ma queste sono quisquilie di messa in scena. Quel che conta sono i vestiti, e il significato profondo che rilasciano: una tensione di controllo e anarchia che è umana, troppo umana, che muove davvero il pensiero come il fuoco del sapere e che alla fine invita ad un contatto diretto con la realtà materiale delle cose. L’escapismo, ecco, vira in concretezza, e il risultato è energizzante.

 

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