Giappone mon amour, tra creatività ed efficienza

Tanta voglia di Giappone: la seconda ondata di «Japonisme» sta investendo l’Italia. Quando arrivò per la prima volta, via Francia, nella seconda metà dell’800, fu una faccenda elitaria. Oggi, invece, è diventata un fenomeno di massa che non influenza più solo le arti, ma anche gli stili di vita di una parte significativa degli italiani. Non serve più la mediazione francese, anche se proprio in questi giorni trionfa Oltralpe la manifestazione «Japonismes 2018», a celebrazione dei 150 anni della nascita del Giappone moderno con il cosiddetto “rinnovamento Meiji”.

Italia e Sol levante vivono una attrazione reciproca forse proprio perché rappresentano due poli spesso opposti, anche se hanno una storia contemporanea straordinariamente simile nelle sue fasi. Oggi, economie mature segnate da problemi comuni come l’invecchiamento della popolazione, stanno diventando più vicine con l’arrivo dell’accordo di libero scambio e della partnership strategica tra Unione europea e Tokyo che, ad esempio, azzera i dazi sull’export di vino italiano e sull’import di saké.

Non è più il Japan as Number One (titolo di un libro di Ezra Vogel del 1979), ancora misterioso ma prepotente, degli anni 80. Il suo declino economico relativo è coinciso con un forte aumento del suo soft power: il Sol levante è diventato “cool”.

Del resto, nel nostro Paese il Giappone è più presente anche sul fronte economico: la birra Peroni è proprietà del gruppo Asahi e la società che realizza i Frecciarossa è di Hitachi. Ed è diffuso anche un Giappone meno appariscente, nella componentistica per l’industria alla logistica fino alle fibre tessili. Senza contare la leadership di Toyota e Nissan nel cercare di convincere anche noi a passare finalmente alle auto ecologiche.

Generazione manga

Sono molti i genitori che si stupiscono perché, anziché sognare la California come loro, i figli adolescenti o post-adolescenti sognano il Giappone. E non solo perché sono cresciuti a manga e videogiochi Nintendo e Sony, o perché il lontano arcipelago è più accessibile che in passato (da alcuni anni ci sono record successivi nel numero di turisti italiani, ora sui 130mila l’anno).

Spiega il nipponista Giorgio Amitrano: «Chi ci va scopre un ambiente e uno stile di vita che sorprende e piace. Da un lato, un contesto di sicurezza, efficienza, gentilezza e funzionalità che per noi è quasi esotico. Dall’altro, una modernità d’avanguardia, insospettabilmente creativa, e una sensazione di immersione in una atmosfera pop. Ma con una costante compresenza tra antico e moderno, tra la lezione dell’estetica tradizionale e quella dello stile visuale contemporaneo». Amitrano ha scritto un agile libro, Iro Iro: il Giappone tra pop e sublime, che è subito diventato un “vangelo” per iniziare a comprendere il fascino della cultura nipponica, così come Ore giapponesi di Fosco Maraini ne è stata per decenni la bibbia. È un confronto vivace, che stimola quanto da noi è latente (come l’estetica del piccolo e della natura) e ci offre uno sguardo sul futuro. La moltiplicazione di festival dedicati alla cultura giapponese nelle sue varie declinazioni trova un pubblico attento, anche al di là delle grandi città: insospettabile, ad esempio, la diffusione di circoli di poesia haiku o di cultori dello scrittore Murakami Haruki o di Hayao Miyazaki, il più famoso animatore di fumetti in Giappone.

Dal cibo alla tecnologia

Qual è il popolo che mangia spaghetti tutti i giorni e il sushi un paio di volte al mese? La risposta esatta è i giapponesi, divoratori di noodles (soba, ramen, udon) per i quali il pesce crudo in realtà è sempre un alimento speciale e non certo quotidiano. «La cucina giapponese è diventata molto popolare, ma ci sono ancora molta superficialità e misunderstanding. Il sushi non è un piatto semplice, anzi è uno dei più complicati», osserva Stefania Viti, autrice di libri come L’arte del sushi , Il sushi tradizionale e Il libro del ramen (singolare il recente successo in Italia del ramen, piatto sostanzioso ma decisamente “proletario”).

Non c’è giapponese che non guardi con sgomento al proliferare di ristoranti di sushi all-you-can-eat a prezzi stracciati, realizzati da ristoratori cinesi in concorrenza con gli happy hour. Ma, almeno in alcune grandi città, si può sperimentare una cucina giapponese abbastanza autentica, o anche proposte fusion di alto livello, in un contesto favorito da singolari affinità con la cucina italiana, come la ricerca di semplicità e la valorizzazione degli ingredienti.

Dalla passione alla pratica

La crescente popolarità del tè matcha si inserisce invece in un filone che identifica in elementi giapponesi un legame stretto con benessere e salutismo, che indirizzano poi alla scoperta di vegetali made in Japan, non solo come ingredienti per diete macrobiotiche. «Oggi c’è un grande idealismo sul Giappone, una passione più concettuale che pratica. Passare dall’amore a prima vista a una pratica di vita è un’altra cosa», dice Alberto Moro, insegnante di cerimoniadel tè (associazione Urasenke) e presidente dell’Associazione Giappone in Italia, con circa 20mila follower su Facebook. Più concreta, aggiunge, è la diffusione delle pratiche zen, spesso in relazione alle arti marziali. L’attenzione sul Giappone è a volte richiamata dal riflesso di fenomeni più o meno effimeri di eco mondiale, si tratti dei bestseller di Marie Kondo (la guru del riordino) o sull’Ikigai come via alla serenità esistenziale.

A Milano è stato aperto il più grande negozio europeo di Muji (con il suo stile essenziale) e i designer giapponesi spesso brillano al Salone del Mobile, mentre si attende il primo sbarco italiano di Uniqlo, la risposta nipponica al fast fashion di Zara e H&M. Ce n’è anche per la religione: in Italia c’è il più grande centro europeo della Soka Gakkai, organizzazione buddista che all’estero non soffre dei contraccolpi di immagine connessi al legame con il partito politico Komeito. Quanto all’hi-tech, un influsso di rinnovamento passa dalla crescente diffusione – anche attraverso imitazioni – del washlet, il water ipertecnologico. «Chi lo prova non torna indietro – dice Giorgio Cesana, rappresentante in Italia di Toto, il maggiore produttore giapponese di sanitari -. Potrebbe affermarsi di più, ma buona parte del mercato è ancora in mano alle imprese di sanitari made in Italy. Tuttavia è in aumento il numero di chi non pensa solo all’estetica, ma – alla giapponese – vuole il massimo di comfort hi-tech e igiene».

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