Fabio Martini: In rete a caccia di storie da raccontare…

Chi sceglie la poesia sa a cosa va incontro.

L’emozione che può confidare un verso, non sempre rende giustizia a chi ci ha passato sopra una notte bianca.

La fatica del poeta è trincerata dietro a quello che in realtà ha da dire: sta lì nascosta, dietro rime che borbottato d’amore e di odio, di quiete e veemenza e Dio sa cos’altro.

La fatica del poeta è la pagina, lo spazio bianco attorno alle parole che ha appena scritto.

Qualcuno nelle retrovie potrebbe obiettare: “Ma che piange il poeta, se il solo sforzo di cui andar fiero è scorrere la penna tenendosi il capo con una mano?

Ha mai sollevato una tegola il poeta? Ha mai spalato terra per il seminato? Ha mai faticato un poeta o suda soltanto perché gli scotta la fronte?”

Che dire?

Un barrito del genere è di moda oggi più che mai. Che la poesia è sentita come uno sfizio per scioperati e nessuno sa che farsene e dove andarla a cercare.

Chi invece, trova questa obiezione pertinente alle necessità del mondo d’oggi, aderente alle richieste di produttività, di fretta e affermazione, di chi si assume il compito di rilanciare la sfida, di barrire di nuovo ogni qualvolta un poeta o un decimo di poeta compare all’orizzonte, semplicemente non ha mai tenuto una penna in mano e non sa quant’è facile sfiancarsi mentre si tenta di portare l’anima in superficie e dalla superficie al foglio e non prova neanche a pensare che è meno dura, alla fine, sollevare una tegola che sollevare il mondo, che è quello che poi ogni poeta, in cuor suo, si augura, prima di coricarsi.

Perciò il poeta non potrà mai essere visto con nessun grembiule addosso se non quello dell’artigiano.

La pazienza è quella. Il mestiere chiuso in un palmo di mano è lo stesso, la fiacca di certi sabato mattina e la povertà della ricompensa alla bilancia, mentre sull’altro piatto sta la sforzo.

I più fortunati scrivono d’istinto, accendono una bionda, guardano la prima nuvola che grava sul cielo e danno alle stampe cimeli degni di fare scuola. Sono una razza con evidenti difficoltà di riproduzione, se ne trovano sempre meno e sempre più di rado, soprattutto negli scaffali degli ultimi arrivi di un qualsiasi libraio. Nascono soltanto quando il panorama è saturo di corbellerie, diciamo uno ogni venticinque o trent’anni, imparano l’arte e la spremono finché campano e virtù del talento puro, senza il benché minimo sforzo.

Il partito più frequentato è però quello dirimpetto, quello come detto degli artigiani.

Ed è in questo sindacato, non sempre frequentato a meraviglia, che vanno a ad iscriversi i nostri poeti.

Essi non pretendono monumenti e neanche le carte false del criticismo più scalognato.

Se c’è qualcosa che pretendono dopo aver chiuso la quarta di copertina è il rispetto.

Rispetto per chi ama spiegare il proprio mondo ed ha scelto la strada più malridotta, la carraia che ormai in pochi battono e chi batte lo fa per soldi, sia detto; il sentiero dove molti accostano, scendono, pisciano e ripartono: la poesia e nient’altro.

Di questi tempi spilorci la poesia è finita all’asta, venduta a colpi di martelletto ai più disposti.

Il cadavere è stato spolpato dagli avvoltoi in un battito di ciglia: un braccio agli editori, uno ai giornalisti, uno a presunti scrittori da passare in televisione, un’altro a quel figlio di buonadonna di cantante.

Fronzoli di poesia appaiono così in paioli con cui spesso non hanno a che spartire e se cantastorie o trovatori passano per poeti ansimanti non è colpa loro, la colpa è del poeta vero che è andato in prescrizione.

Se c’è un capo imputabile alla poesia è di essere rimasta a guardare mentre il mondo sotto la sua agrippina accelerava come una furia, come un cinghiale ferito alla coscia.

Per natura indolenzita, adatta alle lungaggini e a chi può permettersi due o tre ore di svago intellettuale prima o dopo i pasti, la poesia è così finita in chiacchiere, senza mai scendere a patti con chi scappava a briglia sciolta.

Nuove tecniche di fibrillazione sentimentale si sostituivano a quella specie di rospo in gola, al gladio rugginoso succedevano arti meno nobili ma senz’altro più schiette, dirette e senza troppe contorsioni.

Gli infatuati della parola, pur di continuare a sentirne il gusto, hanno difeso col sangue agli occhi il loro giocattolo dicendolo superiore a qualsiasi intrusione, ad ogni altra espressione dell’animo perché a sua volta animo, passione, cattiveria e giudizio, in altre parole: emozione.

Così facendo questi signori, queste sagome incartapecorite adatte a difendere la muffa delle loro cattedre piuttosto che la poesia in essa, hanno fatto sì che la poesia e la sua sempre più sparuta corte dei miracoli, finisse sull’Aventino.

Ecco l’errore fatale. Aver venduto in giro la poesia come un paramento da tabernacolo, il sacro, intoccabile vincolo tra l’uomo e il più alto dei suoi istinti, quello di creare.

Bardata da zitella spocchiosa, magniloquente e irritante, la poesia è dunque rimasta a letto col cicisbeo di turno, mentre tutti sotto al balcone se ne fregavano se ci tirava le cuoia.

Ora, se nessun professore si rivolta nella tomba, quello che si sente è il bisogno di chiedere alla poesia di scendere dalla pianta.

Non è più la stagione delle capriole, occorre un modo rapido ed efficace per sussurrarla alle orecchie di tutti. Non occorre il virtuosismo ma soltanto il buon gusto del semplice.

E’ questa la promessa di questi pochi, tra i tanti poeti in rete e non solo in rete.

Il proponimento non è un fine scaccolarsi poetico ma un coinvolgimento a destra e a manca, un’epidemia se vogliamo, un calcio nello stinco alla poesia di nicchia, una strizzata d’occhio a quella più sincera, nolente agli artefici, che stanno fuori dalle aule e dal circolo nobiliare.

Non è un programma da due soldi, bensì una sfida alle solite cantilene.

Non è avanguardia in tono minore e neanche il pasticcio ultimo di animi irrequieti, insofferenti a chi intima di starsene buoni e zitti.

Dateci un occhio, se vi pare e se questo libro vi sembra scontato, se la poesia vi sembra già sentita e la solfa nient’altro che un vociare di pene, emozioni irrisolte e malora, è perché anche voi, prima di leggere queste poesie, in qualche modo, ce l’avevate già, scritte dentro.

                                                                        Fabio Martini

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